martedì 9 febbraio 2016

Bhagavad-gita Il canto del Beato




Battaglia d’Isso
Museo Archeologico di Napoli

Alessandro Magno (a sinistra) contro Dario III di Persia (a destra).
Ad Isso, al confine tra la Cilicia e la Siria, nel novembre del 333 a.C. le forze di Alessandro Magno, sovrano di Macedonia, affrontarono i persiani di Dario III, aprendo la strada alla conquista macedone della Persia.




La Bhagavadgita è il libro sacro più celebre della tradizione spirituale Indiana e costituisce l'essenza della conoscenza vedica.  E’ un breve poema sanscrito di appena 700 versi in 18 canti, parte integrante del grande poema epico Mahābhārata, fonte, quest’ultimo, delle tradizioni normative, religiose e mistiche dell’India antica.

L’Opera, dedicata alle regole d’agire della Cavalleria, risale probabilmente al III secolo A.C., mentre il primo testo comprensivo di commentario, la Bhagavadgītābhāṣya, è opera di Śaṅkara (788-821).

Nel poema si narra l’incontro di Arjuna, valoroso cavaliere e prototipo dell’eroe, con Krsna, un’incarnazione (avatara) del Divino in forma umana.

La Bhagavad Gita si apre sul campo di battaglia, nella constatazione dell’esitazione di Arjuna che dovrebbe combattere e uccidere gente della sua stirpe, ma si rifiuta di partecipare alla lotta fratricida.

Di fronte a questa prospettiva drammatica, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto, rifiutandosi di combattere. A questo punto Krsna gli impartisce gli insegnamenti, dal profondo contenuto iniziatico, per dissiparne i dubbi e lo sconforto imponendogli di rispettare i suoi doveri di Cavaliere (kṣatra), quindi di combattere comunque, ma senza farsi coinvolgere da quelle stesse azioni (karman).

Krsna gradatamente fa riconoscere ad Arjuna la sua vera condizione coscienziale, che è quella del guerriero, e l’imprescindibile dovere (darma) di assecondarla e svelarla nell’azione.
Apparsa in un momento di contrasti e di nuove esigenze interiori del popolo indiano, la Bhagavadglta contribuì a tener viva la fiamma della Conoscenza upanishadica con la sua ricerca dei valori assoluti della Realtà e a pacificare le dispute filosofiche e spirituali del tempo, facendo comprendere l'unità della Verità nei suoi molteplici aspetti, così da dare a tutti, in modo saggio e illuminato, l'opportunità di seguire senza conflitto dottrinario il sentiero adatto a ognuno.

L’Azione di Arjuna è l’equivalente di qualsiasi altra azione del tutto pacifica e quotidiana come, ad esempio, risolvere le contraddizioni politiche interne ad una comunità oppure quelle che un buon padre di famiglia cerca di superare all’interno della sua famiglia o del posto di lavoro.

Arjuna conserva l’esistente così come è dato, lo difende così come può essere difeso oggigiorno un valore come la vita o la libertà di pensiero o i diritti naturali[1].

In definitiva, la meditazione su quest’opera è profondamente utile per l’uomo del XXI° secolo che, preso dagli obblighi dell’agire quotidiano rischia l’alienazione spirituale, a meno di darsi una regola comportamentale chiara, basata sulla comprensione dei profondi motivi dei propri doveri (darma), in modo che ci si possa rivolgere - nonostante tutto -  e rivolta alla concreta elevazione Spirituale.

La Bhagavad Gita è stata molto commentata nel corso dei secoli: dai razionalisti e uomini pubblici di livello (si pensi al mirabile commentario di Ghandi), agli antropologi (su tutti: Mircea Eliade), alle gerarchie ecclesiastiche, fino ai risvegliati di ogni epoca e fede (tra tutti: Samkara, Sai Baba, Raphael).

Tra tutte le opere in circolazione c’è l’imbarazzo della scelta, pur non potendo evitare di raccomandare l’opera di Raphael, per la limpidezza e profondità spirituale che traspare dalle righe del suo commentario.

Raphael indica nella prefazione del libro quattro punti essenziali per poter comprendere il testo nella sua giusta dimensione:

1. Comprensione tradizionale del concetto del Divino.
2. Comprensione del momento ed evento che hanno determinato la nascita della Gita
3. Comprensione tradizionale degli ordini sociali
4. Comprensione del giusto approccio ai vari sentieri che conducono al Divino.

L’approfondimento dei quattro punti fa comprendere il vero Valore della Gita che, come abbiamo accennato, è enorme se si pensa che è imperniata sull’azione che è alla base della vita di ognuno di noi e alla quale nessuno può sottrarsi o rinunciare. Essa svela il segreto dell’agire senza agire in un mondo, come il nostro, compenetrato di movimento e di conflitto.

Chi si trova sul piano dell’azione, per non divenire succube dell’attivismo, deve comprendere quel perfetto agire scevro di desiderio-attaccamento imprigionante e trascenderne le qualificazioni individuali.

In questo contesto Krsna gradatamente fa riconoscere ad Arjuna la sua vera condizione coscienziale, che è quella del guerriero, e l’imprescindibile dovere (darma) di assecondarla e svelarla nell’azione.

La Gita offre così qualcosa a tutti: sia a chi è impegnato nell’azione esterna sul piano del puro agire sia a chi è portato verso la contemplazione e l’introversione, verso la ricerca filosofica, mistica e riflessiva della vita.

Krsna dice ad Arjuna: “e poi, considerando il tuo proprio darma, non dovresti esitare: per uno ksatrya non v’è niente di meglio che un legittimo combattimento” (II,31)

Tutto il testo rimanda alla profondità delle regioni dello Spirito: a quel Brahman sul quale è impossibile speculare, al massimo stimolarne un tremolante riflesso…








Se ami l’immortalità impugna la folgore 

del giusto agire (karma-yoga) e squarcia il 
dubbio che ti costringe. Quest’opera svela 
il segreto dell’azione ‘non-incatenante’ “
Raphael




  
Uber 
 Eques a Zelante







[1] Possiamo così sostenere che la sua azione è tipicamente “visnuita”: Si tratta di una tradizione prevalentemente teistica, basata principalmente sulla lettura esegetica dei Veda, delle Upaniṣad (con particolare riguardo a quelle dette viṣṇuite), dei Purāṇa (in particolar modo sui Viṣṇu, Nārada, Bhāgavata, Garuḍa, Padma e Varāha Purāṇa), sugli Itihāsa con particolare attenzione al testo profondamente religioso della Bhagavadgītā. Viṣṇu è venerato anche sotto la forma dei suoi principali avatāra, tra i quali i più popolari sono: Kṛṣṇa e Rāma.
Va tuttavia tenuto presente che vi sono alcune rilevanti e diffuse correnti religiose hindū, di origine e natura certamente viṣṇuita, che intendono il dio Kṛṣṇa non come avatāra di Viṣṇu, ma come manifestazione plenaria, originale e diretta del Bhagavat, Dio, la Persona suprema, nel qual caso gli indologi intendono identificarli più precisamente come kṛṣṇaiti. [Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/visnuismo]

martedì 2 febbraio 2016


Vivekacūḍāmaṇi (Il gran gioiello della discriminazione)




Vivekacūḍāmaṇi
(Il gran gioiello della discriminazione)
Edizione: Associazione Ecoculturale Parmenides

(dalla II e III di copertina del testo)

Che cosa intendiamo per realtà? Con quali strumenti o mezzi possiamo raggiungerla? A quali risultati porta la conoscenza della realtà?

L’individuo occidentale interpreta la realtà in base alle forme-immagini che la sua mente crea dietro rappresentazioni sensoriali assai illimitate.

Siamo soliti speculare su ciò che è la nostra particolare immagine-universo, anziché sulla realtà in sé. Il mondo che ci circonda è sempre un mondo rapportato alla nostra interpretazione mentale, basta spostare la focalizzazione e la dimensione ché simile mondo acquisti interpretazione e realtà diverse. Quando un qualunque dato oggettivo cade sotto la nostra percezione sensoriale-mentale, esso viene rapportato e modificato da quella stessa nostra percezione e proiettato come dato reale e assoluto.

In Oriente, ma anche nell’Occidente classico, soprattutto dell’antica Grecia (Pitagora, Parmenide, Platone, Plotino, Neopitagorici e Neoplatonici), in linea strettamente tradizionale, è Reale ciò che non subisce cambiamento e diversificazione, moto e processo, per cui si può definire la Realtà nella sua accezione più profonda: Assoluto. Ciò che non è Assoluto-reale non è altro che fenomeno, apparenza.

Abbiamo parlato di Assoluto, il che equivale a parlare di Metafisica e il Vedānta advaita, di cui il Vivekacūḍāmaṇi segue i princìpi, è metafisica pure perché la sua tematica fondamentale è proprio questa ricerca dell’Assoluto in quanto Reale puro: “Esiste una realtà, un’entità assoluta, la quale è l’eterno sostrato della coscienza differenziata, testimone dei tre stati e distinta dai cinque involucri”.

In questa sua opera Śaṅkara ha dispiegato non solo una metafisica teorico-intuitiva della Realtà, portando un grande contributo al pensiero filosofico umano, ma ha anche concretizzato una strada-sentiero che può essere realizzata e vissuta; infatti nel corso del dialogo Egli tratta dei mezzi o strumenti necessari per penetrare nel mondo delle cause e rompere le catene delle false sovrapposizioni prodotte dall’ignoranza avidyā. Tra questi riveste particolare importanza viveka, la discriminazione o discernimento intellettivo tra il reale e il non reale, che dà il titolo all’opera stessa: “Il gran gioiello della discriminazione”. Un “gioiello” che illumina della sua luce e della sua purezza la nostra coscienza affinché possa vivere la gioia che nasce dal riconoscimento della nostra eternità, compiutezza e pienezza.

Raphael, nella traduzione dal sanscrito, ha avuto cura di restituire ad alcuni termini il significato più aderente alla Tradizione advaita entro cui il Vivekacūḍāmaṇi si colloca (si veda per esempio il capitolo dedicato alla māyā-apparenza) e il suo commento risulta perfettamente adeguato all’importanza della visione advaita di cui chiarisce e sviluppa i punti essenziali per il lettore occidentale.