sabato 2 aprile 2016

RIFLESSIONI SULL’ETERNO E IL DIVENIRE




Noi uomini, così come avviene per ogni essere vivente, abbiamo una visione della realtà condizionata dai nostri limiti conoscitivi. E di essa, in assenza della capacità di andare oltre le apparenze, ci facciamo un’idea rigida e falsa. Vediamo la realtà in un certo modo e pensiamo che questa sia proprio così come ci appare.

Certo, non siamo proprio ingenui, sappiamo in molti che una mosca vedrebbe il luogo dove ci troviamo in questo momento in un modo completamente diverso. Questo accade perché i suoi canali percettivi (i sensi fisici) sono, di molto, diversi da quelli umani.

Con uno slancio di ulteriore agile rigidità, affermiamo però che se è vero che i nostri sensi ci limitano nel modo di comprendere la rappresentazione della realtà, c’è qualcosa che si presenta immutabile, ossia: tutto ciò che osserviamo di fronte a noi scorre continuamente e noi siamo immersi in una “freccia del tempo” inarrestabile.

Affermiamo, dunque: “Il tempo esiste, è reale ed è proprio come lo viviamo”. C’è un passato, un presente e un futuro che avverrà.

È vero, anche in questo caso, sappiamo benissimo che il tempo (e lo spazio) è relativo sul piano della fisica, che subisce delle modificazioni se siamo in movimento alla velocità della luce o ci troviamo seduti su un pianeta di densità elevatissima. E, figuriamoci, se ci trovassimo in viaggio sul confine di un buco nero.

Bene, il tempo è relativo, ma c’è. Si può tornare, sempre sul piano della fisica, anche in dietro nel tempo. Esso non è proprio rigido come pensavamo prima, ma esiste con certezza. Tutto si muove, è impermanente, diviene incessantemente.

C’è anche un tempo psicologico. Un grande conoscitore del tempo e dell’uomo è stato ad esempio Shakespeare. Il quale evidenzia emblematicamente le sue conoscenze in materia nella commedia “Come vi pare”. A parlare sono Orlando e Rosalind.

Ros. … Il tempo cammina con passo diverso, a seconda delle diverse persone. Io posso dirvi con chi il tempo va a passo d’ambio, con chi trotta, con chi galoppa e con chi sta fermo.
Orl. Con chi trotta, di grazia?
Ros. Diamine! Va di trotto rotto con una ragazza, fra il suo fidanzamento e il giorno in cui il matrimonio è celebrato. Ci sia pure l’intervallo di sette giorni soltanto, il passo del tempo è così rotto che sembra una distanza di sette anni.
Orl. E con chi va il tempo a passo d’ambio?
Ros. Con un prete che non sa il latino e con un uomo ricco che non ha la gotta. L’uno infatti dorme facilmente perché non può studiare e l’altro vive allegramente perché non sente alcun dolore: l’uno perché non ha il fardello di una scienza magra e logorante, l’altro perché non conosce quello di una pesante e molesta miseria. Con costoro il tempo  va a passo d’ambio.
Orl. E con chi galoppa?
Ros. Con un ladro che va alla forca; perché quantunque egli cammini il più lentamente possibile, pensa sempre di arrivare troppo presto.
Orl. E con chi sta fermo?
Ros. Con gli uomini di legge quando sono in ferie, perché essi dormono fra una sessione e l’altra, e non s’accorgono che il tempo si muove.

Possiamo costatare, dunque, la realtà del tempo; abbiamo una vivida percezione del suo scorrere incessante; e su questa esperienza fissiamo le nostre certezze.

Dove si vuole arrivare con questa riflessione? Vogliamo forse sostenere che il tempo non esiste ed è una pura illusione?

Di certo non è questa l’intenzione di questo breve scritto.

Il tempo esiste, anche nella sua forma relativa ed elastica, e insieme allo spazio circoscrive la struttura della realtà in cui viviamo in quanto individui.

Qual è allora il punto? Cosa vogliamo sostenere? Cos’è, quindi, l’eternità in rapporto alla realtà spazio-temporale?

L’uomo, ripetiamolo, schiacciato nei suoi limiti conoscitivi, spesso ritiene che sia vero solo ciò che egli con i suoi strumenti riesce a comprendere.

Anche sul piano logico i parametri di comprensione umani non riescono a cogliere concetti di realtà distanti dai loro confini. Con ciò sottolineiamo che i limiti interpretativi dell’uomo non sono solo percettivi e psicologici, ma anche logico-formali, che riguardano cioè la razionalità. Questo è il motivo per cui la Tradizione iniziatica mette in guardia il ricercatore dal pensare che la mente possa portarlo sino alla realizzazione finale, al risveglio, all’illuminazione. La mente è senza dubbio un valido aiuto iniziale che deve lasciare il posto a strumenti conoscitivi superiori. Il primo fra questi è, ad esempio, l’intuizione, (il puro intelletto). E quest’ultima è uno strumento molto più raffinato e veloce del pensiero, il quale è l’espressione della mente.

Intuire, nei termini tradizionali, significa comprendere l’oggetto della nostra attenzione all’istante, senza la necessità di pensarlo.

Dopo questo prologo, possiamo comprendere perché, quando ci confrontiamo con il concetto di “eternità”, in piena identificazione con la nostra mente, afferriamo questa come un qualcosa di estremamente distante dal momento che stiamo vivendo. Pensiamo l’eternità come un momento-evento lontano all’infinito nel tempo, perciò irraggiungibile per un essere temporale com’è l’uomo.

Questo nasce dall’ignorare quale sia la nostra vera identità e la struttura in generale della realtà.

Dal punto di vista della conoscenza metafisica, suprema conoscenza dell’Essere, è reale solo ciò che è permanente, immutabile, eterno e si trova in ogni luogo. Da ciò comprendiamo come l’eternità sia il fondamento di qualsiasi espressione temporale che si sovrappone ad essa.

In noi sono presenti tutti i livelli di realtà. C’è lo spazio, il tempo e l’eternità; e la nostra identità reale è la pura coscienza disidentificata da qualsiasi veicolo. Con il termine veicolo descriviamo i vari corpi coi quali noi coscienza ci identifichiamo. Il più grossolano e ben visibile-percepibile è il corpo fisico. Poi viene il corpo energetico e quello mentale. Ce ne sono altri che non prenderemo in questa sede in considerazione. Basti ora comprendere che ogni veicolo, detto anche corpo, è qualcosa che utilizziamo. E il soggetto del verbo utilizzare siamo noi coscienza.

Il tempo, il divenire, è il modo in cui la mente comprende il mondo.

La coscienza è purezza informale. La nostra vera identità è, quindi, assenza di forma e di movimento. Nella coscienza non c’è il tempo, si vive un presente infinito. La coscienza, ciò che siamo realmente, è pura eternità.

Per quale motivo, quindi, viviamo schiacciati nella dimensione temporale, con tutto ciò che consegue?

Questo accade perché noi coscienza, nella nostra infinita possibilità espressiva, in questo momento ci siamo identificati con veicoli formali limitati. Ci troviamo identificati, ad esempio, con un corpo fisico. Non lo utilizziamo semplicemente, ma ci siamo talmente fusi in esso che pensiamo di essere proprio quel corpo. E in questo processo di caduta, in realtà molto più articolato di come lo stiamo qui descrivendo, abbiamo perso la coscienza della nostra vera natura eterna.

Ciò comporta l’assumere i limiti del corpo con cui ci siamo identificati.

Il processo di risveglio, espresso nella formula alchemica solve et coagula, richiede la disidentificazione (solve) da tutti i corpi formali per ritornare al fondamento (coagula) della nostra identità.

L’eternità non è quindi qualcosa di distante, ma è la dimensione più intima di ogni essere.

L’assenza di pensiero, il silenzio degli iniziati, ci mette nella possibilità di ritornare in quello stato naturale di assenza di tempo, comprendendo per consapevolezza diretta lo stato dell’eternità.

Dal luogo dove tutto permane, in cui termina l’illusione del divenire, possiamo osservare la realtà spazio-temporale in piena consapevolezza, sapendo di non essere ciò che inizia e un giorno finirà.

S.G.M. dell’Ordine

Arjuna


mercoledì 30 marzo 2016

Il Codice dei Cavalieri Eidon: Regola XV



IL CODICE DEI CAVALIERI EIDON
REGOLA XV

Gesù affermava: “Ama il prossimo tuo (come) perché è te stesso”. 

Oppure: “Tutte le cose, dunque, che volete che gli uomini vi facciano, anche voi dovete similmente farle a loro”. 

Con le parole attribuite a Confucio, possiamo indicarti un’ulteriore conferma di questa regola, nei termini della negazione: “Ciò che non vuoi che sia fatto a te, non farlo agli altri”. 

E, ancora, Gesù: “Amate i vostri nemici”. 

Comprendi anche questo insegnamento: “Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di Me”. 

Con alcune frasi emblematiche quest’Ordine ti indica la necessità di portare alla dissoluzione ogni dualità nella tua vita affinché tu possa tornare al Padre tuo, all’assoluto Essere; perché: “Tat Tvam Asi”, “Tu sei Quello”.

sabato 26 marzo 2016

IL MISTERO DELLA MIA PASQUA



In questo santo sabato di silenzio, vi proponiamo un brano tratto dal libro "Il mistero della mia Pasqua". L'autrice è una mistica anonima, la quale riporta gli insegnamenti ricevuti dal Cristo nei momenti di confidenza spirituale con Esso.

Non importa se crediate o meno alla realtà di tale contatto spirituale tra Gesù e la mistica, che mantiene la sua riservatezza nell'anonimato. Riteniamo, tuttavia, che in questo brano sia sottolineata dal Risorto l'importanza suprema del Silenzio nel progetto realizzativo della "salvezza".

Questa spiegazione delle Scritture, che si mostra nella sua audace novità, è di certo degna di attenzione per coloro che sono in cammino verso la realizzazione della conoscenza in sé, in quanto essa mostra, nelle vicende della resurrezione, la forza operativa del silenzio, come momento supremo della "comprensione".

S.G.M. Arjuna

AMA IL SILENZIO DELLA TOMBA

Leggi Luca 23,55-56 ed è l'ultimo brano della passione che ti propongo, poi seguiranno gli incontri dopo la mia risurrezione:

"Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e olii profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento".

In questo giorno apparentemente non succede nulla. I discepoli mi hanno seppellito in fretta, riservandosi di farlo con più cura dopo la festa. E la salvezza prosegue la sua opera. Perché il Padre mio non cessa di amare il mondo, e per mezzo della mia morte gli uccisori stanno per entrare nell'eredità.

La mia discesa agli inferi, che la mia Chiesa proclama come uno dei dati importanti della sua fede, manifesta il mio invio in missione verso tutti quelli che già riposano, per annunziare loro che riposano in me, e che in me e con me possono risorgere. Devi comprendere come la missione è, per la maggior parte del suo tempo, silenziosa, perché non è un'intrusione brutale mia nella vita degli uomini, ma un lento germinare.

Occorre parecchio tempo a un cuore umano per accettare l'amore del Padre mio e lasciarsi abitare da lui. Non calcolare mai i frutti di quello che fai, non misurare troppo presto i successi, né lasciarti prendere dalla desolazione per le apparenti disfatte. Accetta, qualche volta, il silenzio del Padre. Anche io l'ho accettato sulla croce e nel mistero della mia morte. Il tempo della tua preghiera silenziosa sia un tempo privilegiato in cui ti rendi disponibile affinché il Padre agisca in te nel modo che gli sembra migliore.

Impara a vivere la tua Eucaristia come un mistero di silenzio. Ogni celebrazione è, certamente, ricca del mistero della mia Parola, di tutta la Scrittura che viene letta e deve essere il pane della tua fede. Ma poi viene il tempo del silenzio; raccogliti alla mia dolce presenza, liberati dai pensieri inutili; stai lì, felice di portarmi dentro di te, perché a poco a poco io ti faccia rassomigliare sempre più a me e ti unisca alla mia Pasqua.

Ama il silenzio della tomba, sapendo quanto è portatore di vita!

domenica 20 marzo 2016

RIFLESSIONI BREVI SULL’UOMO CHE VOLLE FARSI DIO

Con questo strano titolo, intendo affrontare un tema scottante che ha messo in seria difficoltà, nella storia del cristianesimo, grandi mistici medievali come Meister Eckhart o San Giovanni della Croce oppure, nel novecento, il monaco benedettino Henri Le Saux, che è stato il protagonista di una delle vicende spirituali più interessanti del novecento: l’unione mistica col divino letta dalla metafisica Indiana del Vedanta Advaita in termini di Non-dualità, che egli ha ricompreso in chiave cristologica e trinitaria.

Il punto è questo: la Via Metafisica, Insegnamento a cui si riferisce questo Sovrano Ordine, afferma che esiste un’unica Coscienza, e Questa è l’Assoluto Essere. Il mondo dei nomi e delle forme, cioè l’intera Creazione, detta anche “la Manifestazione Universale”, è una realtà spazio-temporale. La Manifestazione, avendo un inizio e una fine, ed essendo in un continuo movimento che la mantiene in uno stato di impermanenza, non può essere considerata reale. Perché, dal punto di vista della Realtà ultima, è reale solo ciò che è sempre presente, è in ogni luogo e non subisce alcun cambiamento.

Ora, prendendo le distanze da ingenui antropomorfismi, Dio, il Padre, è l’Assoluto Essere. Esso è quello stato coscienziale di assoluta ed eterna totalità: è tutto, è il fondamento di ogni cosa che appare nella creazione. Possiamo aggiungere che Dio è da sempre, c’era prima della creazione e sarà presente dopo che essa non ci sarà più. Egli è, appunto, l’Eterno.

La Conoscenza Metafisica porta a realizzare proprio quell’Assoluto Essere, perché Esso è la realtà di ogni cosa, quindi, anche dell’essere umano.
Qui sorge il problema, che suscita da sempre, nel mondo cristiano, l’ira e la soluzione della persecuzione verso questa particolare eresia.

Cosa significa che l’uomo può, al termine del processo iniziatico della Via Metafisica, riconoscersi come Assoluto Essere?

Per comprendere tale affermazione, è necessario spostare e invertire il nostro quesito, ovvero: “Come può Dio, il Padre, l’Assoluto, non essere qualsiasi cosa?

Il contrario sarebbe una contraddizione in termini.

L’uomo, quindi, è in realtà quell’Assoluto Essere, che momentaneamente ha perso la coscienza di Sé. L’identificazione col divino, in quanto nostra reale Identità, da ciò può avvenire a patto che l’Essere che è in noi, che è noi, si disidentifichi dalla forma individuale. È questione di consapevolezza. Non si deve costruire nulla che non sia già presente, anche se non visibile ad occhi che non sono, al momento, in grado di “Vedere”.

Ma, il Cristo? Come spiegare la sua figura in termini metafisici?

Esso è quell’Immensa Intelligenza cosmica che chiamiamo Dio Creatore, cioè il Padre Assoluto nella sua funzione di Principio Primo della Manifestazione. Il Principio ha incarnato un uomo, un corpo, proprio quel corpo apparso nella “forma” 2000 anni fa, e in Esso ha operato, e opera ancora, nell’espressione della Sua responsabilità verso l’umanità.

Non possiamo tralasciare, sempre in termini metafisici, il Santo Spirito. Esso è ancora una volta il Padre nella funzione manifesta. Esso, il Santo Spirito, è l’Assoluto che sostanzia l’intera creazione. Non c’è cellula dell’universo che non sia fondata sullo Spirito, ed Esso è il Padre e nello stesso tempo il Figlio. Essi sono una cosa sola.

Le forme, nell’espressione metafisica Non-duale, sono un’apparenza filtrata da prospettive visive particolari e limitate. L’uomo stesso, in quanto frutto di identificazione dell’Assoluto in una forma particolare, vede tutto attraverso gli occhi dell’ignoranza; ignoranza verso la sua Identità reale, che non può non essere ciò che è in ogni cosa, che è tutto ciò che esiste.

L’uomo quindi non potrà mai farsi Dio; ma Dio non può non essere il Tutto che da sempre è.

Alcune citazioni:

Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro credetelo per le opere stesse».”

Giovanni 14,8


Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di Verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi… In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi”.

Giovanni 14,15


Pace, Gioia e Consapevolezza assolute a tutti gli esseri.


Il S.G.M. dell’Ordine

Arjuna



venerdì 18 marzo 2016

RIFLESSIONI BREVI SUL SIGNIFICATO DI "ILLUMINAZIONE"


"Illuminazione", o "risveglio", è un termine ormai assai noto, di solito, legato alle discipline spirituali dell'Oriente; anche se l'Occidente non è mai stato orfano di tali insegnamenti.

In realtà, il significato cui esso rimanda ha ben poco a che vedere con l'Oriente o l'Occidente; ma riguarda esclusivamente le possibilità dell'uomo di realizzare, ("realizzazione" è un altro sinonimo utilizzato al pari di "illuminazione" o "risveglio"), le sue possibilità potenziali nascoste, ma da sempre presenti.

Personalmente, preferisco il termine "risveglio", perché, a mio parere, rappresenta al meglio l'esperienza che descrive sul piano della metafora.

Tutti noi, fino a prova contraria, ci svegliamo ogni giorno. Nel momento in cui questo accade, ci rendiamo conto, con certezza, che ci siamo portati su un livello coscienziale diverso: quello dello stato di veglia. Fuori dalla metafora quindi il "risveglio", nei termini della spiritualità, significa: rendersi conto di uno stato esistenziale più espanso, limpido, che sempre, se è un vero risveglio, aumenta la nostra indipendenza e ci fa vedere le cose da un punto di vista chiaro e senza preoccupazione. Una condizione di espansione della nostra consapevolezza/coscienza, a qualsiasi livello essa si ponga, ci permette di occuparci di più e con più efficacia della nostra vita anziché pre-occuparci di essa.

Nel cammino verso la "liberazione", (ulteriore sinonimo), avvengono tanti parziali risvegli. E ogni volta che ciò accade comprendiamo di essere qualcosa di più ampio di quello che pensavamo fino ad un momento precedente.

Secondo l'insegnamento cui ci rivolgiamo, poniamo dei confini/limiti alle possibilità di risvegliarci a piani di consapevolezza sempre maggiori.

Il livello "finale" di tale possibilità è quello aperto dalla Conoscenza Metafisica, che descrive lo stato Non - duale dell'Essere. Essa ci parla dell'Assoluto, e ci dice che tutti siamo  "Quello", quell'Unica Coscienza.

Per risveglio, in questo Sovrano Ordine, intendiamo realizzare-comprendere ciò che da sempre siamo: l'Essere Assoluto ed Eterno; e tale stato è l'unico irreversibile, quando realmente realizzato. Da questo finale risveglio non si torna più indietro.

L'esperienza della liberazione finale è descritta emblematicamente dalla filosofia del Vedanta Advaita indiano come Sat, Cit, Ananda, ossia, Essere, Coscienza e Beatitudine in assoluto. Il Supremo mantra Advaita recita, invece, "Tat Tvam Asi": Tu Sei Quello.

Il S.G.M. dell'Ordine
Arjuna


giovedì 17 marzo 2016

RIFLESSIONI BREVI SULLA CONSAPEVOLEZZA


Molte volte si sente parlare della consapevolezza. E questa è sempre chiamata in causa come elisir per una vita saggia e gioiosa.

Allo stesso tempo, molte persone, pur intuendo che la consapevolezza è lo stato necessario per realizzare una vita felice, non sanno cosa sia e come possa essere sviluppata.

Qual è il significato di essere consapevole? E, soprattutto, come esserlo?

"Consapevolezza" significa essere presenti e osservare l'intero nostro flusso coscienziale. Ed esso è composto di percezioni fisiche, immagini, pensieri, emozioni e quelli che chiamiamo "processi mentali", ossia la mente che giudica, analizza e produce rappresentazioni fondate sul pensiero. Possiamo dire che la nostra individualità, l'io, è questo flusso continuo, che passa di solito inosservato.

Essere consapevoli significa, quindi, osservare questo "flusso", senza identificarsi con esso.

Tale operazione comporta il riconoscere che la nostra vera identità non è ciò che osserviamo, ma l'osservatore stesso.

Noi siamo, in verità, questa coscienza osservante. Essa è pura presenza, non è ostacolata da nulla e vive in uno stato di gioia "senza causa".

Questo è ciò che tramanda la Tradizione universale, attraverso i suoi insegnamenti.

La massima estensione di questa Conoscenza suprema, la Metafisica, espressione della cosiddetta Non - dualità, che porta in eterno all'emancipazione dalla sofferenza e dalla necessità, aggiunge un'affermazione indispensabile alla realizzazione dell'assoluta libertà. Essa afferma che "tutto ciò che è osservato, in quanto osservato, non è reale".

Tale asserzione non significa che l'osservato, (il flusso della nostra individualità e, in vero, l'intera realtà, giacché osservabile), non esista in un momento contingente della storia. Ciò vuol dire che, dal punto di vista della Conoscenza, portata alla sua espressione finale, tutto ciò che ha un inizio e una fine non è considerato reale. Ciò che è impermanente, quindi, è una realtà relativa, spazio-temporale.

Questa è l'affermazione ultima: 
"E' reale solo ciò che è sempre presente, permanente e verificabile in ogni momento", da ciascuno in sé. È la descrizione della nostra reale Identità di pura consapevolezza. Ciò significa che quell'osservatore che evochiamo in noi nei primi momenti di sviluppo della consapevolezza all'interno della nostra individualità, quando espanso fuori da ogni possibile forma, diviene l'Assoluto Essere.

Tale è la "Grande Opera", questi sono i "Grandi Misteri", e tutto ciò è la semplice e naturale nostra Identità.

S.G.M. dell'Ordine
Arjuna


mercoledì 16 marzo 2016

Insegnamento nell'Ordine

Il Sovrano Ordine dei Cavalieri Eidon si connette alla catena iniziatica della Conoscenza Metafisica tradizionale, nell'espressione del Vedanta Advaita, la Suprema Sapienza Non-duale della filosofia indiana.

In conseguenza di tale devozione, l'Ordine afferma e persegue quell'etica originaria, che è fondata sulla consapevolezza, nella quale si sciolgono, (per realizzazione diretta, interna e verticale), le differenze tra tutti gli esseri.

Dal conseguimento filosofico-etico-realizzativo, al quale la Metafisica si rivolge, appare, in gioia e chiarezza, ciò che è stato mostrato all'umanità dallo Spirito che sta al suo fondamento. E Questo è compassione, amore, comprensione.

S.G.M. dell'Ordine
Arjuna


martedì 9 febbraio 2016

Bhagavad-gita Il canto del Beato




Battaglia d’Isso
Museo Archeologico di Napoli

Alessandro Magno (a sinistra) contro Dario III di Persia (a destra).
Ad Isso, al confine tra la Cilicia e la Siria, nel novembre del 333 a.C. le forze di Alessandro Magno, sovrano di Macedonia, affrontarono i persiani di Dario III, aprendo la strada alla conquista macedone della Persia.




La Bhagavadgita è il libro sacro più celebre della tradizione spirituale Indiana e costituisce l'essenza della conoscenza vedica.  E’ un breve poema sanscrito di appena 700 versi in 18 canti, parte integrante del grande poema epico Mahābhārata, fonte, quest’ultimo, delle tradizioni normative, religiose e mistiche dell’India antica.

L’Opera, dedicata alle regole d’agire della Cavalleria, risale probabilmente al III secolo A.C., mentre il primo testo comprensivo di commentario, la Bhagavadgītābhāṣya, è opera di Śaṅkara (788-821).

Nel poema si narra l’incontro di Arjuna, valoroso cavaliere e prototipo dell’eroe, con Krsna, un’incarnazione (avatara) del Divino in forma umana.

La Bhagavad Gita si apre sul campo di battaglia, nella constatazione dell’esitazione di Arjuna che dovrebbe combattere e uccidere gente della sua stirpe, ma si rifiuta di partecipare alla lotta fratricida.

Di fronte a questa prospettiva drammatica, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto, rifiutandosi di combattere. A questo punto Krsna gli impartisce gli insegnamenti, dal profondo contenuto iniziatico, per dissiparne i dubbi e lo sconforto imponendogli di rispettare i suoi doveri di Cavaliere (kṣatra), quindi di combattere comunque, ma senza farsi coinvolgere da quelle stesse azioni (karman).

Krsna gradatamente fa riconoscere ad Arjuna la sua vera condizione coscienziale, che è quella del guerriero, e l’imprescindibile dovere (darma) di assecondarla e svelarla nell’azione.
Apparsa in un momento di contrasti e di nuove esigenze interiori del popolo indiano, la Bhagavadglta contribuì a tener viva la fiamma della Conoscenza upanishadica con la sua ricerca dei valori assoluti della Realtà e a pacificare le dispute filosofiche e spirituali del tempo, facendo comprendere l'unità della Verità nei suoi molteplici aspetti, così da dare a tutti, in modo saggio e illuminato, l'opportunità di seguire senza conflitto dottrinario il sentiero adatto a ognuno.

L’Azione di Arjuna è l’equivalente di qualsiasi altra azione del tutto pacifica e quotidiana come, ad esempio, risolvere le contraddizioni politiche interne ad una comunità oppure quelle che un buon padre di famiglia cerca di superare all’interno della sua famiglia o del posto di lavoro.

Arjuna conserva l’esistente così come è dato, lo difende così come può essere difeso oggigiorno un valore come la vita o la libertà di pensiero o i diritti naturali[1].

In definitiva, la meditazione su quest’opera è profondamente utile per l’uomo del XXI° secolo che, preso dagli obblighi dell’agire quotidiano rischia l’alienazione spirituale, a meno di darsi una regola comportamentale chiara, basata sulla comprensione dei profondi motivi dei propri doveri (darma), in modo che ci si possa rivolgere - nonostante tutto -  e rivolta alla concreta elevazione Spirituale.

La Bhagavad Gita è stata molto commentata nel corso dei secoli: dai razionalisti e uomini pubblici di livello (si pensi al mirabile commentario di Ghandi), agli antropologi (su tutti: Mircea Eliade), alle gerarchie ecclesiastiche, fino ai risvegliati di ogni epoca e fede (tra tutti: Samkara, Sai Baba, Raphael).

Tra tutte le opere in circolazione c’è l’imbarazzo della scelta, pur non potendo evitare di raccomandare l’opera di Raphael, per la limpidezza e profondità spirituale che traspare dalle righe del suo commentario.

Raphael indica nella prefazione del libro quattro punti essenziali per poter comprendere il testo nella sua giusta dimensione:

1. Comprensione tradizionale del concetto del Divino.
2. Comprensione del momento ed evento che hanno determinato la nascita della Gita
3. Comprensione tradizionale degli ordini sociali
4. Comprensione del giusto approccio ai vari sentieri che conducono al Divino.

L’approfondimento dei quattro punti fa comprendere il vero Valore della Gita che, come abbiamo accennato, è enorme se si pensa che è imperniata sull’azione che è alla base della vita di ognuno di noi e alla quale nessuno può sottrarsi o rinunciare. Essa svela il segreto dell’agire senza agire in un mondo, come il nostro, compenetrato di movimento e di conflitto.

Chi si trova sul piano dell’azione, per non divenire succube dell’attivismo, deve comprendere quel perfetto agire scevro di desiderio-attaccamento imprigionante e trascenderne le qualificazioni individuali.

In questo contesto Krsna gradatamente fa riconoscere ad Arjuna la sua vera condizione coscienziale, che è quella del guerriero, e l’imprescindibile dovere (darma) di assecondarla e svelarla nell’azione.

La Gita offre così qualcosa a tutti: sia a chi è impegnato nell’azione esterna sul piano del puro agire sia a chi è portato verso la contemplazione e l’introversione, verso la ricerca filosofica, mistica e riflessiva della vita.

Krsna dice ad Arjuna: “e poi, considerando il tuo proprio darma, non dovresti esitare: per uno ksatrya non v’è niente di meglio che un legittimo combattimento” (II,31)

Tutto il testo rimanda alla profondità delle regioni dello Spirito: a quel Brahman sul quale è impossibile speculare, al massimo stimolarne un tremolante riflesso…








Se ami l’immortalità impugna la folgore 

del giusto agire (karma-yoga) e squarcia il 
dubbio che ti costringe. Quest’opera svela 
il segreto dell’azione ‘non-incatenante’ “
Raphael




  
Uber 
 Eques a Zelante







[1] Possiamo così sostenere che la sua azione è tipicamente “visnuita”: Si tratta di una tradizione prevalentemente teistica, basata principalmente sulla lettura esegetica dei Veda, delle Upaniṣad (con particolare riguardo a quelle dette viṣṇuite), dei Purāṇa (in particolar modo sui Viṣṇu, Nārada, Bhāgavata, Garuḍa, Padma e Varāha Purāṇa), sugli Itihāsa con particolare attenzione al testo profondamente religioso della Bhagavadgītā. Viṣṇu è venerato anche sotto la forma dei suoi principali avatāra, tra i quali i più popolari sono: Kṛṣṇa e Rāma.
Va tuttavia tenuto presente che vi sono alcune rilevanti e diffuse correnti religiose hindū, di origine e natura certamente viṣṇuita, che intendono il dio Kṛṣṇa non come avatāra di Viṣṇu, ma come manifestazione plenaria, originale e diretta del Bhagavat, Dio, la Persona suprema, nel qual caso gli indologi intendono identificarli più precisamente come kṛṣṇaiti. [Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/visnuismo]